IL SUPERPOTERE DELLE DOMANDE

Vi sarà capitato di avere a che fare con relatori che, convinti di creare coinvolgimento, tartassassero l’aula di domande. Il risultato, per la mia esperienza, è generalmente molesto. Vuoi per la banalità dei quesiti. Vuoi per i finti complimenti che tendono a seguire risposte svogliate. Insomma, negli anni ho proprio sviluppato un'insofferenza verso i relatori con la domanda facile. A volte mi verrebbe proprio da urlare:“Piantala con le domande cretine, di’ quel che hai da dire e levati dalle scatole!”.
Ma dove sbagliano questi relatori? Nel fare domande? In realtà no. L’intenzione è corretta. Una domanda può davvero stabilire un legame con la platea, accrescere l’attenzione e stimolare il ragionamento. Però dev’essere una buona domanda. E com’è fatta una buona domanda? Beh, innanzitutto deve farci venir voglia di rispondere. O meglio, di trovare la risposta. E quali domande fanno questo? Sono quelle che nel coaching si chiamano ‘domande potenti’, ovvero domande stimolanti sotto il profilo delle emozioni e/o del ragionamento.
E’ grazie alle domande potenti che i coach riescono a espandere la consapevolezza dei loro coachee. Laddove le valutazioni esterne alzano la barriera del rifiuto, una domanda potente permette a chi la riceve di compiere da sé uno scatto di consapevolezza all’interno del suo inconscio medio. E’ in questo terreno che opera il mental coach, a differenza dello psicologo che sonda piuttosto l’inconscio profondo. Il coach professionista saprà poi rilanciare con domande che permettano al coachee di dettagliare, verificare, mettere in discussione, a volte anche ribaltare certe risposte. Fornendogli così nuovi strumenti che lo aiutino a risolvere un problema o raggiungere un obiettivo desiderato.
Quando mi domandano che lavoro faccio, potrei perdere mezzora a spiegarmi. A distinguere tra consulenza, formazione, life, business e sport coaching. Per cui a volte preferisco andare al sodo. Che lavoro faccio? Io faccio domande.